Funzione evolutiva della narrazione.
La funzione evolutiva cruciale della narrazione è quella di prepararci alla vita reale. Perché le storie ci insegnano a dare forma e significato alla realtà.

Ben è un bimbo di tre anni, corre felice nel giardino di casa e fa costruzioni con i cubi.
Da dietro la finestra il padre lo guarda e racconta che Ben, purtroppo, ha un tumore al cervello e pochi mesi di vita, e che non sa come fare per essere allegro e presente nella vita del figlio con quel pensiero ricorrente. E poi racconta che quando esce e si mette per terra, all’altezza del piccolo, per giocare con i cubi, per qualche istante riesce a dimenticare ciò che accadrà
e a capire quanto sia stata importante la breve permanenza del bambino nella famiglia.
Ben è un cartone animato, come il suo papà: li ha creati Paul Zak, neuro economista della Claremont Graduate University, per scoprire cosa accade agli esseri umani quando sono esposti a un racconto ad alto tasso di emotività.
I risultati del suo esperimento, pubblicati nel 2007 su «PLOS ONE», dimostrano che le storie cambiano il nostro cervello e, di conseguenza, il nostro comportamento.
Dopo aver ascoltato la vicenda di Ben, nel sangue dei volontari sottoposti all’esperimento si trovano elevati livelli di cortisolo (l’ormone dello stress, ma anche dell’attenzione) e di ossitocina (che aumenta l’empatia).
Un secondo video, in cui Ben e il padre passeggiano in uno zoo, e in cui non vi è alcuna trama o emozione particolare, non altera la composizione del sangue degli ascoltatori.
Non solo: dopo aver ascoltato la storia dello sfortunato bambino, gli individui che producono i più alti livelli di ossitocina sono anche più propensi a fare donazioni partecipando alla ricerca. Misurando i livelli di ossitocina durante la visione del racconto i ricercatori sono stati capaci di prevedere con il 98 per cento di sicurezza chi avrebbe donato.Il nostro studio ha dimostrato che i racconti modulano il funzionamento del cervello e che esiste una relazione tra l’arte di raccontare e il comportamento di chi ascolta i racconti, dice Paul Zak.
A suscitare cambiamenti, a livello sia biochimico sia comportamentale, non sono le parole, ma il modo con cui vengono concatenate per costruire il racconto.
Nel nostro caso solo le storie che rispettano il cosiddetto arco drammatico, una struttura narrativa identificata dallo scrittore tedesco Gustav Freytag nel XIX secolo, hanno un effetto sul comportamento.
E l’arco drammatico:
introduzione alla vicenda,
crescita dell’azione,
culmine,
riduzione dell’azione,
risoluzione della vicenda,
è la struttura tipica di qualsiasi buona narrazione.
Il lavoro di Zak non è certo il primo dedicato al valore psicologico e neurologico dei racconti. Il tema interessa da anni gli esperti, soprattutto perché l’uomo sembra essere l’unico animale che ama narrare o ascoltare gli altri che raccontano.
Che cosa c’è nei nostri cervelli da renderli sensibili alla narrazione?
La spiegazione è evolutiva, afferma J. Gottschall, docente di letteratura ed evoluzione al Washington and Jefferson College, Pennsylvania,
I bambini imparano presto a inventare e raccontare storie, a viverci dentro e ci credono per natura, non per cultura. È naturale quanto respirare.
Sono circa otto al giorno le ore che trascorriamo ascoltando o raccontando storie: che sia la televisione o i nostri pensieri, un libro o una ricostruzione interiore, la verità è che i racconti riempiono la nostra esistenza anche da svegli e non solo nei sogni.
L’attitudine a narrare è una delle poche caratteristiche umane universali, presenti in tutte le culture. Vi sono tracce di narrazioni collettive fin dai tempi più remoti della vita della nostra specie. Quando un comportamento è presente in tutte le società, la scienza vi riconosce un prodotto dell’evoluzione, spiega Gottschall. Ciò significa che nel raccontare storie ci deve essere qualcosa di utile per noi, qualcosa che potenzia le nostre capacità sociali.
Secondo la più accreditata ipotesi evoluzionistica, l’arte di narrare avrebbe lo scopo di propagare informazioni utili a garantire un buon adattamento della specie all’ambiente. Consente infatti di trasmettere culturalmente informazioni essenziali sui luoghi dove trovare il cibo, sulle tecniche di caccia, di navigazione o di orientamento geografico. Inoltre è un ottimo sistema di codifica delle norme sociali e delle regole morali.
Dal momento che le storie sono oggetti sociali che contengono informazioni sulle relazioni tra gli individui, sono uno strumento perfetto per tramandare istruzioni per una buona vita collettiva. E la loro natura narrativa permette di memorizzare una lunga lista di dati che sarebbe impossibile da trattenere se fosse esposta in chiave puramente didascalica, conclude Gottschall.
Anche uno dei padri delle neuroscienze, Michael Gazzaniga, è convinto che
le storie servano a prepararci alla vita reale.
Siamo pronti per fare fronte agli eventi inattesi perché li abbiamo immaginati o ascoltati nei racconti. È questa una delle funzioni evolutive essenziali della narrazione.
Raccontare non è parlare.
L’uomo è capace di raccontare storie perché è dotato di una teoria della mente, ossia della capacità di pensare a sé stesso e agli altri esseri umani come esseri pensanti. Recenti esperimenti condotti su bambini sotto l’anno di vita, dimostrano che non solo sono capaci di capire una storiella anche quando i personaggi sono pupazzi o addirittura formine geometriche, ma che tendono a umanizzarli e a classificarli secondo una morale che sembra innata, vengono scelti come compagni di gioco dei personaggi che si comportano amichevolmente verso gli altri protagonisti della storia.
In realtà le storie sono uno strumento di apprendimento prezioso, in grado di sviluppare le relazioni all’interno del gruppo sociale.
Questa è anche la ragione per cui il marketing si sta appropriando delle storie.
Fin dall’esordio le pubblicità hanno lavorato sulla narrazione. Dopo un periodo in cui si è puntato sulle sensazioni invece che sulle emozioni, oggi si torna a creare l’immagine dei prodotti attraverso le storie: compriamo una certa marca, perché così entriamo nel suo mondo narrativo.
Un potere che potrebbe essere sfruttato a fin di bene: le campagne di prevenzione puntano sempre più a inserire le informazioni all’interno di un racconto, mentre la televisione comincia a scoprire la funzione educativa delle sit-com.
Basta inserire un personaggio che fa un esame diagnostico o smette di fumare per indurre almeno una parte degli spettatori a imitarlo.
In conclusione le storie ci fanno bene, ci fa bene inventarle, ci fa bene ascoltarle. Ci aiutano a riscoprire e approfondire il nostro rapporto con gli altri e con noi stessi.
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